Riccardo Muti

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Re: Riccardo Muti

Messaggioda Triboulet » gio 04 ott 2012, 12:00

Grazie Beck dell'intervento, perchè aldilà della discussione che si è creata (interessantissima) una vera risposta al PERCHE' ci sia oggi questa tendenza nei giudizi ero il primo a non averla (non ho l'esperienza di ascolti che avete voi nè probabilmente una visione così ampia). Tu offri un quadro abbastanza realistico. La domanda ora è: in cosa ha sbagliato concretamente Muti? del resto fino pure a 15 anni fa il maestro aveva ben altro seguito (poi uno dirà meritato, non meritato, frutto di mistificazioni, pubblicità ecc.), oggi anche quelli che lo seguivano sembrano rinnegarlo. Il suo errore è stato esclusivamente "gestionale", che ha confinato le sue interpretazioni nel dimenticatoio? il suo atteggiamento accentratore? o sono le sue letture che intrinsecamente sono state fuori tempo massimo, o comunque incapaci di scuotere la contemporaneità, come diceva Mat? tecnica e linguaggio desueti? percorsi che vanno su binari morti? chiusura alle interferenze stilistiche esterne? perchè io non credo alla teoria del "più coinvolgente" e "meno coinvolgente", almeno in senso superficiale, può valere per gli ascoltatori occasionali (quelli che preferiscono Chopin a Berg in ogni caso, Karajan a Boulez, Horowitz a Gulda ecc.), ma Muti si ritrova ad essere nè dalla parte dei "rivoluzionari rottamatori" (Minkowski) nè dalla parte degli eredi intelligenti della tradizione (Abbado), nè tantomeno alla stregua dei "rivoluzionari di tradizione" (Rattle)... detta alla Marazzi, perchè oggi riusciamo a credere a Minkowski, a Rattle e pure ad Abbado (e qualcuno pure a Baremboim) ma a Muti no? atteso che stiamo parlando di un direttore di spessore, cosa cerca il nostro orecchio che Muti non è riuscito a darci? si tratta solo di mancanza di ruffianeria?
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Re: Riccardo Muti

Messaggioda DottorMalatesta » gio 04 ott 2012, 14:47

Alle domande interessantissime (come sempre!) del caro Triboulet ne aggiungo due (sulle quali, mi pare, si é sorvolato... ;-)

1. Quali incisioni dirette da Muti si possono dire di riferimento?

A occhio e croce direi Tell e Cav-Pag.
Non Norma (cast improponibile, e tempi eccessivamente veloci, ma bella linea neoclassica). Forse Puritani... Nessuna opera di Verdi (neppure Traviata, a dispetto di un cast formidabile!!)

2. In cosa l´approccio di Muti in Verdi si discosta (ammesso che lo faccia realmente) dalla visione di Toscanini?

Io sono convinto (come detto piú volte) che sia una riproposizione in chiave moderna (suono molot piú curato, ci mancherebbe!!) dell´interpretazione dell´incazzosissimo maestro parmigiano, ma molto piú superficiale, effettistica ed epidermica.

Ciao!
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Re: Riccardo Muti

Messaggioda beckmesser » gio 04 ott 2012, 14:50

Triboulet ha scritto:atteso che stiamo parlando di un direttore di spessore, cosa cerca il nostro orecchio che Muti non è riuscito a darci?


Io una risposta me la sono data, e credo non riguardi solo Muti: si riallaccia al diverso modo che il pubblico ha di fruire di uno spettacolo operistico. Provo a spiegarmi (con l’ovvia premessa che andrò di machete a semplificare: è chiaro che il discorso sarebbe più complesso).

Dagli anni ’60 in poi si sono verificati due mutamenti epocali nella messinscena operistica (che, a mio parere, ne hanno consentito la sopravvivenza, ma questo è altro discorso): la rivoluzione filologica ed il nuovo ruolo del regista. Come ha brillantemente detto Matteo in qualche altro post, la rivoluzione filologica non riguarda meramente aspetti esecutivi, ma culturali, di rapporto fra esecutore e pubblico. Prima, il grado di “creatività” che un direttore d’orchestra aveva era infinitamente più limitato: messo davanti alla partitura del Fidelio, il suo problema era principalmente interpretativo; adesso deve porsi anche il problema di che tipo di suono vuole creare. Mezzo secolo fa, il Trovatore di Karajan era forse molto meglio suonato e molto più ricco di idee di quello di Votto, ma la sostanza era quella, il testo musicale era un elemento dato. E il pubblico lo sapeva: entrando a teatro non aveva bisogno di porsi il problema di che tipo di suoni avrebbe ascoltato. Adesso, se io vado a sentire il Trovatore di Minkowski, non so cosa posso aspettarmi; o meglio, so che posso aspettarmi qualsiasi cosa. Questo cambia il rapporto fra esecutore e pubblico: il secondo ha un’aspettativa maggiore, vuole che il direttore si ponga il problema di che mondo sonoro vuole e deve creare con riferimento ad una specifica opera.

Lo stesso vale per il ruolo del regista: il fatto che quest’ultimo abbia ottenuto un ruolo creativo pari a quello del direttore e una libertà assoluta nella gestione delle immagini che crea pone sulle spalle del pubblico un compito molto più complesso nel recepire lo spettacolo; compito che, per una larga fetta di pubblico, è diventata un’aspettativa. So bene che non per tutto il pubblico è così; ma è così per quella parte di pubblico che viaggia, compra dvd, che (per usare un termine orribile) “fa tendenza”. Non dico nemmeno che sia giusto così: capisco anzi benissimo che dissente da ciò che il modo di concepire l’opera è diventato: ma non ci si può fare nulla…

Bene, Muti tutto questo non l’ha capito, o non l’ha voluto capire: per lui il direttore d’orchestra è ancora l’officiante che celebra un rito; da una parte gli esecutori che danno vita ad un testo immutabile, dall’altro il pubblico che recepisce quel testo. Ma il pubblico non vuole più questo tipo di rapporto. Per questo poco importa che la sua Lodoiska fosse ben diretta: se gli si propone quell’opera, il pubblico vuole che gli interpreti si pongano il problema di quale fosse il ruolo di uno spettacolo operistico nella Parigi rivoluzionaria, di quali tensioni vi fossero rappresentate e poi, una volta postisi e risolti questi problemi, provino anche a dirgli perché quel mondo ha qualcosa da dire ad un uomo del XX secolo. Se invece si trova davanti la direzione bellissima ma neutra di Muti, il fumettone di Ronconi e la Lodoiska della Devia (bravissima ma totalmente assurda in quel ruolo), andrà comunque a teatro per ascoltare un’opera di rara esecuzione, ma poi alzerà le spalle e passerà oltre, magari concentrandosi su Christie e i suoi in Rameau, che quei problemi se li pongono.

Al contrario, Abbado tutto quanto sopra lo ha capito benissimo: ogni suo approccio ad un testo fa trasparire (nella ricerca sonora, nella scelta dei collaboratori, ecc.) una riflessione continua, il tentativo di decodificare il testo con strumenti che il pubblico sente come contemporanei. E il pubblico, a quel punto, lo segue: magari contestando i risultati, ma non l’approccio.

Io, almeno, la vedo così e, ribadisco, mi dispiace, perché credo che Muti avrebbe potuto avere un ruolo importante proprio in un repertorio che a me interessa molto, ma così non è stato…

Saluti,

Beck
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Re: Riccardo Muti

Messaggioda vivelaboheme » gio 04 ott 2012, 19:06

Quanto ho letto sopra su Abbado e Muti risponde anche al mio pensiero. Ma, onde evitare, un noioso dualismo storico (che non ci può essere, proprio per i motivi sovra esposti: il peso specifico dell'interprete Abbado è ben altro), e per chiarire il mio pensiero sull'argomento qui proposto farò un altro nome, quello di un direttore oggi (giustamente) in grande auge: Antonio Pappano.
Pappano non è direttore di chissà quale spessore intellettuale, ma ha un'altra forza: l'immediatezza intuitiva dell'approccio agli autori che esegue. La sua forza sta nell'essersi capito e accettato e proposto per ciò che è, uno straordinario intuitivo. E' per questo che le sue esecuzioni sinfoniche (e d'opera) a Santa Cecilia così come quelle operistiche a Londra hanno questa carica dirompente, che il pubblico (e la critica stessa) colgono e apprezzano.
Quando Muti approdò alla Scala, era un direttore di questo tipo (lo è sempre stato): dotatissimo tecnicamente, ricco d'un temperamento e di una "immediatezza" che ha sostituito, nel tempo (c'è chi la chiama maturazione, io nel suo caso l'ho sempre trovata un'involuzione) con un' immagine , affettata, di sacerdote di un rito, e d'una ricerca d'approccio più intellettuale che, semplicemente, non è delle sue corde. Qualche amico estimatore di Muti mi contesterà, ma ripeto quanto altre volte mi è accaduto di esporre, in discussioni sull'argomento: si è parlato di Guglielmo Tell come di una pietra miliare nella carriera di Muti. A mio avviso, è vero, lo è stato ma... a Firenze! Quello dirompente, immediato, degli anni giovanili. Non quello successivo molto più "intellettualizzato" (e affettato) proposto alla Scala. Non ho scelto il Tell a caso: a riprova sta - proprio su questo titolo rossiniano - il travolgente esito dell'esecuzione dal vivo ( e incisione) di Pappano. Che ha l'autenticità (intesa come sincerità) di un direttore, o forse di un uomo, che non pretende di essere altro da sé.


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Re: Riccardo Muti

Messaggioda DottorMalatesta » gio 04 ott 2012, 19:17

Concordo in parte con il paragone con Pappano. In effetti entrambi mi sembrano maestri dell´effetto, del colore, della superficie sonora levigata, che ti prende le trippe. E in questo entrambi danno dei gran punti ad Abbado.
Che poi, non me ne vogliano i mutiani, l´effetto tenda a sconfinare nell´effettaccio é un´altra faccenda.
Ciao,
Francesco
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Re: Riccardo Muti

Messaggioda vivelaboheme » gio 04 ott 2012, 19:30

In Pappano l'effettaccio non c'è, direi, mai. Immediato, sì, ma per fortuna anche dotato di molto gusto. Il suono resta sempre bello, il fraseggio pulito.
Poi, a proposito, non è detto che l'approccio intellettuale di Abbado escluda il lato "emozionale", anzi! Pensa al finale della Nona di Mahler in anni recenti, o, ieri, al finale di Simon Boccanegra o alla scena del Gran Consiglio o al finale del Prologo, o al concertato atto I di Macbeth...


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Re: Riccardo Muti

Messaggioda DottorMalatesta » gio 04 ott 2012, 19:35

Caro Marco,
sull´emozionalitá di Abbado non devi certo convincere me, ma qualcun altro... :mrgreen:
Ti assicuro che alla fine della nona di Mahler ascoltata qualche anno fa a Reggio Emilia sono uscito dal teatro in lacrime. Ma si sa, sono un Abbadiano impenitente :oops: :oops: :oops:
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Re: Riccardo Muti

Messaggioda teo.emme » gio 04 ott 2012, 23:15

DottorMalatesta ha scritto:1. Quali incisioni dirette da Muti si possono dire di riferimento?

Direi Il Gugliemo Tell, senz'altro...e poi I Puritani (che orchestralmente sono superiori a qualsiasi altra incisione), Orfeo ed Euridice, Le Nozze di Figaro, La Vestale (nel bene e nel male è una pietra i paragone). Di Verdi citerei Aida, Attila e, soprattutto Trovatore. Cito anche La Donna del Lago..non tanto per l'incisione Philips, funestata da una tecnica scadentissima di registrazione (ed è una vergogna, negli anni '90), ma per il ricordo delle recite dal vivo: non ho mai ascoltato un Rossini così "bello"!E poi il miglior Don Pasquale dell'intera discografia.
DottorMalatesta ha scritto:2. In cosa l´approccio di Muti in Verdi si discosta (ammesso che lo faccia realmente) dalla visione di Toscanini?

Secondo me si differenzia in molto: io non amo Toscanini (anzi lo trovo largamente sopravvalutato...in virtù di un mito postumo e di uno schiaffo enfatizzato). Trovo il suo approccio molto più superficiale ed effettistico (a volte una mera bandaccia) rispetto a Muti: prendi Traviata oppure Otello...tutto ritmo e urgenza drammatica, certo, ma privo misura e lirismo: Aida, Requiem, Ballo, Otello...li trovo talmente sopra le righe da apparire parodistici. Confronta l'ultimo STRAORDINARIO Requiem di Muti inciso con la Chcago Symphony Orchestra! Muti ha un approccio opposto a Toscanini...parte da un'estetica classica e vede in Verdi un germoglio della tradizione operistica italiana (che ha radici in Paisiello e Cimarosa), laddove Toscanini fa di Verdi un anticipatore del dramma verista.
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Re: Riccardo Muti

Messaggioda mattioli » ven 05 ott 2012, 9:45

Io una risposta me la sono data, e credo non riguardi solo Muti: si riallaccia al diverso modo che il pubblico ha di fruire di uno spettacolo operistico. Provo a spiegarmi (con l’ovvia premessa che andrò di machete a semplificare: è chiaro che il discorso sarebbe più complesso).

Dagli anni ’60 in poi si sono verificati due mutamenti epocali nella messinscena operistica (che, a mio parere, ne hanno consentito la sopravvivenza, ma questo è altro discorso): la rivoluzione filologica ed il nuovo ruolo del regista. Come ha brillantemente detto Matteo in qualche altro post, la rivoluzione filologica non riguarda meramente aspetti esecutivi, ma culturali, di rapporto fra esecutore e pubblico. Prima, il grado di “creatività” che un direttore d’orchestra aveva era infinitamente più limitato: messo davanti alla partitura del Fidelio, il suo problema era principalmente interpretativo; adesso deve porsi anche il problema di che tipo di suono vuole creare. Mezzo secolo fa, il Trovatore di Karajan era forse molto meglio suonato e molto più ricco di idee di quello di Votto, ma la sostanza era quella, il testo musicale era un elemento dato. E il pubblico lo sapeva: entrando a teatro non aveva bisogno di porsi il problema di che tipo di suoni avrebbe ascoltato. Adesso, se io vado a sentire il Trovatore di Minkowski, non so cosa posso aspettarmi; o meglio, so che posso aspettarmi qualsiasi cosa. Questo cambia il rapporto fra esecutore e pubblico: il secondo ha un’aspettativa maggiore, vuole che il direttore si ponga il problema di che mondo sonoro vuole e deve creare con riferimento ad una specifica opera.

Lo stesso vale per il ruolo del regista: il fatto che quest’ultimo abbia ottenuto un ruolo creativo pari a quello del direttore e una libertà assoluta nella gestione delle immagini che crea pone sulle spalle del pubblico un compito molto più complesso nel recepire lo spettacolo; compito che, per una larga fetta di pubblico, è diventata un’aspettativa. So bene che non per tutto il pubblico è così; ma è così per quella parte di pubblico che viaggia, compra dvd, che (per usare un termine orribile) “fa tendenza”. Non dico nemmeno che sia giusto così: capisco anzi benissimo che dissente da ciò che il modo di concepire l’opera è diventato: ma non ci si può fare nulla…

Bene, Muti tutto questo non l’ha capito, o non l’ha voluto capire: per lui il direttore d’orchestra è ancora l’officiante che celebra un rito; da una parte gli esecutori che danno vita ad un testo immutabile, dall’altro il pubblico che recepisce quel testo. Ma il pubblico non vuole più questo tipo di rapporto. Per questo poco importa che la sua Lodoiska fosse ben diretta: se gli si propone quell’opera, il pubblico vuole che gli interpreti si pongano il problema di quale fosse il ruolo di uno spettacolo operistico nella Parigi rivoluzionaria, di quali tensioni vi fossero rappresentate e poi, una volta postisi e risolti questi problemi, provino anche a dirgli perché quel mondo ha qualcosa da dire ad un uomo del XX secolo. Se invece si trova davanti la direzione bellissima ma neutra di Muti, il fumettone di Ronconi e la Lodoiska della Devia (bravissima ma totalmente assurda in quel ruolo), andrà comunque a teatro per ascoltare un’opera di rara esecuzione, ma poi alzerà le spalle e passerà oltre, magari concentrandosi su Christie e i suoi in Rameau, che quei problemi se li pongono.

Al contrario, Abbado tutto quanto sopra lo ha capito benissimo: ogni suo approccio ad un testo fa trasparire (nella ricerca sonora, nella scelta dei collaboratori, ecc.) una riflessione continua, il tentativo di decodificare il testo con strumenti che il pubblico sente come contemporanei. E il pubblico, a quel punto, lo segue: magari contestando i risultati, ma non l’approccio.

Io, almeno, la vedo così e, ribadisco, mi dispiace, perché credo che Muti avrebbe potuto avere un ruolo importante proprio in un repertorio che a me interessa molto, ma così non è stato…

Saluti,

Beck


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Re: Riccardo Muti

Messaggioda MatMarazzi » ven 05 ott 2012, 20:07

Complimenti Beck
un post bellissimo, esemplare, che sintetizza perfettametne il pensiero di molti.
E tuttavia...

beckmesser ha scritto:Sono perfettamente d’accordo con teo.emme: le scelte di repertorio di Muti alla Scala non sono in nulla meno varie, originali ed intriganti di quelle di Abbado.


Qui vorrei fare una precisazione, anche se ho capito benissimo cosa vuoi dire e sono d'accordo.
Nelle scelte del "suo" repertorio Muti è stato capace di idee "varie, originali e intriganti".
Nel gestire il repertorio della Scala di Milano (che è il "nostro" teatro più importante) invece le sue scelte sono state, contrariamente a quanto afferma Teo.Emme, provinciali, squallide e oscurantiste.

Il fatto è che un teatro come la Scala non può esclusivamente conformarsi alle caratteristiche dei propri "divi" di riferimento.
E' doveroso valorizzarli, questo sì, purché la programmazione non perda di vista la propria necessità storica, che è quella di offrire un panorama completo di tutte le tendenze artistiche prioritarie nel mondo.

Vediamo di ricordare cosa avveniva ai tempi della Callas (quando la Scala era la "Scallas").
Certo! Disponi di un simile genio e quindi è normale che intorno a lei si ritagliasse parte della programmazione: per la "Divina" veniva riesumati i Cherubini e i Donizetti, i Bellini e gli Spontini, i Gluck e i Rossini.
Però nel contempo nulla di ciò che accadeva nel mondo sfuggiva al pubblico milanese.
A Vienna esplodeva il fenomeno del nuovo "Mozart"? La Scala lo importava.
La Neue Bayreuth lanciava un nuovo linguaggio in Wagner: ed ecco che i campioni arrivavano subito a Milano.
Negli anni 50, alla Scala si scritturava Karajan in Strauss e Mozart, Furtwaengler in Wagner e Gluck, Mitropoulos in Berg e Busoni.
Si invitavano (e sul podio di opere, non solo per concerti) direttori come Bernstein e Knappertsbusch, Kubelik e Cluyteuns, Boehm e Scherchen, Schippers e Clemens Krauss.
Si invitavano i registi più all'avanguardia dalla Germania, dalla Francia o dalla Russia, come Felsenstein, la Pavlova, Vilar e Gunther Rennert.
Negli stessi anni si convincevano i nostri Strheler e Visconti a fare i loro primi passi nell'opera.
A livello di titoli, si sperimentavano tutti i repertori: dalla Fiera di Sorochtinski a Mathis der Mahler, dalla Piccola Volpe Astuta all'Ercole di Haendel, dal Matrimonio segreto a Progy and Bess, il tutto continuando a creare opere nuove di Orff, Poulenc, Milhaud, Pizzetti e De Falla.
La Schwarzkopf tornava ogni stagione (magari debuttando come Marescialla, oltre che in Elsa, Elisabeth, Melisande e Alice Ford). Un Vinay veniva persuaso a studiare per la Scala Kitesch di Rimsky Korsakov e il Cirano di Bergerac. Un Borkh debuttava per la Scala nella Fiamma di Respighi e nella Katerina Izmailova di Shostakovic. La Crespin cantava la sua unica Fedra di Pizzetti. La Rysanek creò alla Scala la sua prima Crisotemide e la Nilsson la sua prima Turandot e la sua unica Kundry....
E tutto questo non avveniva in vent'anni, ma in poco più di dieci: gli anni della Callas.

Quello che voglio dire è che la Scala, oltre a portare avanti le specificità dei propri artisti, dovrebbe anche rendere conto all'Italia intera delle tendenze vincenti nel mondo.
Dovrebbe essere principalmente una grande vetrina di scuole, che confluiscono lì ai più alti livelli (è per questo che prende più soldi di ogni altro teatro italiano).
Con Abbado e Grassi (sia pure in misura decisamente minore che negli anni '50) la Scala era aperta ai fermenti del mondo.
Con Muti no. Da vetrina internazionale la Scala è diventata specchio del narcisismo di un solo uomo e levò per due decenni barriere titancihe (edificate, temo, soprattutto con l'ignoranza) contro qualsiasi cosa succedesse nel mondo . Non una delle grandi rivoluzioni del mondo dell'opera negli anni '90 arrivò da noi: arrivano ora, stanche e invecchiate, con la gestione Lissner.
Altro che "vario e intrigante"; il repertorio scaligero del ventennio mutiano è una tragedia.


Tornando agli interrogativi posti da Triboulet...

cosa cerca il nostro orecchio che Muti non è riuscito a darci?


La mia risposta è di natura più psicologica che tecnica.
Qualcuno disse che l'Italia è quel paese in cui, se salta fuori un gran generale, lo si fa ministro della guerra (col risultato di perdere un gran generale e ottenere un pessimo ministro della guerra).
Per me, il fatto è che Muti non era assolutamente nato per fare il ministro (e tantomeno il monarca).
Troppo limitata la sua visione, troppo "istintiva" (come diceva anche Vizzardelli) la sua sensibilità, troppo rissoso ed egocentrico per avere a cuore un interesse collettivo.
In compenso come generale era straordinario: talentuoso, intuitivo, generoso, instancabile e molto, molto preparato in ogni strategia.

Poteva essere un gigante, purché qualcuno, al di sopra di lui e con visioni più ampie, complesse, elastiche, lo indirizzasse, come avveniva a Firenze.
Il disastro è dipeso dal fatto che Muti (inconsapevole dei propri limiti, come ogni generale che si rispetti) ha deciso - ditino nell'orecchio - di ascendere al ruolo di ministro...
Ma che dico ministro? re, imperatore...
In questa veste è stato catastrofico! Non solo ha goveranto la Scala in modo disastroso, ma è riuscito ad annientare persino quei meriti "tattici" che avevano fatto di lui un grande generale.
Non essendoci più nessuno al di sopra di lui che potesse orientare le sue scelte interpretative, i difetti si sono ingigantiti quanto i pregi; l'istinto teatrale "sanguigno" ha schiacciato ogni velleità di approfondimento interpretativo; il culto della forma è diventato celebrazione sterile; la mancanza di visione culturale (suo eterno problema, anche negli anni giovanili, ma ora non più contrastato da alcun interlocutore) ha portato a letture sempre più puerili e alteramente ingenue.
Non arrivando a capire la forza delle nuove tendenze artistiche, che nel frattempo venivano emergendo, ha pensato di avere la forza di oscurarle tutte, convinto (come ogni generale che si prende per un imperatore) di essere imbattibile.

Abbado è stato probabilmente sovrastimato... ne convengo. Ed è vero che anche lui in quanto a culto della personalità non scherza.
Ma si è mai preso per un imperatore, come Muti; tutt'altro. Ha sempre compreso la necessità di confrontarsi agli altri e di affidarsi ad "autorità" che potessero indirizzarlo.
E' vero che anche lui comanda (oh... se comanda!) ma lo fa solo sui suoi soldati. Ai tempi della Scala, non comandava certo su Paolo Grassi o su Carlo Maria Badini.

Io almeno la vedo così.
Salutoni,
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Re: Riccardo Muti

Messaggioda DottorMalatesta » ven 05 ott 2012, 21:04

Caro Mat,
inutile dire che concordo con te sulla malagestione Muti durante il ventennio :mrgreen: (noto che le faccine verdi si sprecano quando parlo di Muti, pazienza!!!).
Però, faccio l'avvocato del diavolo, questo esula un po' (anzi, del tutto) dalla valutazione di Muti come puro direttore d'opera.
Mi sembra di capire che lo consideri un direttore che non ha mai voluto (saputo?) evolvere. Beh... ancora una volta sono d'accordissimo!
Tralasciando il derby Abbado-Muti, mi piacerebbe avere il tuo giudizio esperto sul Muti direttore: anche tu, come altri, non lo consideri un clone di Toscanini? Quale incisione diretta da Muti si pone a tuo giudizio come riferimento nella discografia? In fin dei conti, qual è il lascito di Muti alla direzione d'opera?
Ciao!
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Re: Riccardo Muti

Messaggioda mattioli » ven 05 ott 2012, 21:07

Complimenti Beck
un post bellissimo, esemplare, che sintetizza perfettametne il pensiero di molti.
E tuttavia...



beckmesser ha scritto:Sono perfettamente d’accordo con teo.emme: le scelte di repertorio di Muti alla Scala non sono in nulla meno varie, originali ed intriganti di quelle di Abbado.


Qui vorrei fare una precisazione, anche se ho capito benissimo cosa vuoi dire e sono d'accordo.
Nelle scelte del "suo" repertorio Muti è stato capace di idee "varie, originali e intriganti".
Nel gestire il repertorio della Scala di Milano (che è il "nostro" teatro più importante) invece le sue scelte sono state, contrariamente a quanto afferma Teo.Emme, provinciali, squallide e oscurantiste.

Il fatto è che un teatro come la Scala non può esclusivamente conformarsi alle caratteristiche dei propri "divi" di riferimento.
E' doveroso valorizzarli, questo sì, purché la programmazione non perda di vista la propria necessità storica, che è quella di offrire un panorama completo di tutte le tendenze artistiche prioritarie nel mondo.

Vediamo di ricordare cosa avveniva ai tempi della Callas (quando la Scala era la "Scallas").
Certo! Disponi di un simile genio e quindi è normale che intorno a lei si ritagliasse parte della programmazione: per la "Divina" veniva riesumati i Cherubini e i Donizetti, i Bellini e gli Spontini, i Gluck e i Rossini.
Però nel contempo nulla di ciò che accadeva nel mondo sfuggiva al pubblico milanese.
A Vienna esplodeva il fenomeno del nuovo "Mozart"? La Scala lo importava.
La Neue Bayreuth lanciava un nuovo linguaggio in Wagner: ed ecco che i campioni arrivavano subito a Milano.
Negli anni 50, alla Scala si scritturava Karajan in Strauss e Mozart, Furtwaengler in Wagner e Gluck, Mitropoulos in Berg e Busoni.
Si invitavano (e sul podio di opere, non solo per concerti) direttori come Bernstein e Knappertsbusch, Kubelik e Cluyteuns, Boehm e Scherchen, Schippers e Clemens Krauss.
Si invitavano i registi più all'avanguardia dalla Germania, dalla Francia o dalla Russia, come Felsenstein, la Pavlova, Vilar e Gunther Rennert.
Negli stessi anni si convincevano i nostri Strheler e Visconti a fare i loro primi passi nell'opera.
A livello di titoli, si sperimentavano tutti i repertori: dalla Fiera di Sorochtinski a Mathis der Mahler, dalla Piccola Volpe Astuta all'Ercole di Haendel, dal Matrimonio segreto a Progy and Bess, il tutto continuando a creare opere nuove di Orff, Poulenc, Milhaud, Pizzetti e De Falla.
La Schwarzkopf tornava ogni stagione (magari debuttando come Marescialla, oltre che in Elsa, Elisabeth, Melisande e Alice Ford). Un Vinay veniva persuaso a studiare per la Scala Kitesch di Rimsky Korsakov e il Cirano di Bergerac. Un Borkh debuttava per la Scala nella Fiamma di Respighi e nella Katerina Izmailova di Shostakovic. La Crespin cantava la sua unica Fedra di Pizzetti. La Rysanek creò alla Scala la sua prima Crisotemide e la Nilsson la sua prima Turandot e la sua unica Kundry....
E tutto questo non avveniva in vent'anni, ma in poco più di dieci: gli anni della Callas.

Quello che voglio dire è che la Scala, oltre a portare avanti le specificità dei propri artisti, dovrebbe anche rendere conto all'Italia intera delle tendenze vincenti nel mondo.
Dovrebbe essere principalmente una grande vetrina di scuole, che confluiscono lì ai più alti livelli (è per questo che prende più soldi di ogni altro teatro italiano).
Con Abbado e Grassi (sia pure in misura decisamente minore che negli anni '50) la Scala era aperta ai fermenti del mondo.
Con Muti no. Da vetrina internazionale la Scala è diventata specchio del narcisismo di un solo uomo e levò per due decenni barriere titancihe (edificate, temo, soprattutto con l'ignoranza) contro qualsiasi cosa succedesse nel mondo . Non una delle grandi rivoluzioni del mondo dell'opera negli anni '90 arrivò da noi: arrivano ora, stanche e invecchiate, con la gestione Lissner.
Altro che "vario e intrigante"; il repertorio scaligero del ventennio mutiano è una tragedia.


Tornando agli interrogativi posti da Triboulet...



cosa cerca il nostro orecchio che Muti non è riuscito a darci?


La mia risposta è di natura più psicologica che tecnica.
Qualcuno disse che l'Italia è quel paese in cui, se salta fuori un gran generale, lo si fa ministro della guerra (col risultato di perdere un gran generale e ottenere un pessimo ministro della guerra).
Per me, il fatto è che Muti non era assolutamente nato per fare il ministro (e tantomeno il monarca).
Troppo limitata la sua visione, troppo "istintiva" (come diceva anche Vizzardelli) la sua sensibilità, troppo rissoso ed egocentrico per avere a cuore un interesse collettivo.
In compenso come generale era straordinario: talentuoso, intuitivo, generoso, instancabile e molto, molto preparato in ogni strategia.

Poteva essere un gigante, purché qualcuno, al di sopra di lui e con visioni più ampie, complesse, elastiche, lo indirizzasse, come avveniva a Firenze.
Il disastro è dipeso dal fatto che Muti (inconsapevole dei propri limiti, come ogni generale che si rispetti) ha deciso - ditino nell'orecchio - di ascendere al ruolo di ministro...
Ma che dico ministro? re, imperatore...
In questa veste è stato catastrofico! Non solo ha goveranto la Scala in modo disastroso, ma è riuscito ad annientare persino quei meriti "tattici" che avevano fatto di lui un grande generale.
Non essendoci più nessuno al di sopra di lui che potesse orientare le sue scelte interpretative, i difetti si sono ingigantiti quanto i pregi; l'istinto teatrale "sanguigno" ha schiacciato ogni velleità di approfondimento interpretativo; il culto della forma è diventato celebrazione sterile; la mancanza di visione culturale (suo eterno problema, anche negli anni giovanili, ma ora non più contrastato da alcun interlocutore) ha portato a letture sempre più puerili e alteramente ingenue.
Non arrivando a capire la forza delle nuove tendenze artistiche, che nel frattempo venivano emergendo, ha pensato di avere la forza di oscurarle tutte, convinto (come ogni generale che si prende per un imperatore) di essere imbattibile.

Abbado è stato probabilmente sovrastimato... ne convengo. Ed è vero che anche lui in quanto a culto della personalità non scherza.
Ma si è mai preso per un imperatore, come Muti; tutt'altro. Ha sempre compreso la necessità di confrontarsi agli altri e di affidarsi ad "autorità" che potessero indirizzarlo.
E' vero che anche lui comanda (oh... se comanda!) ma lo fa solo sui suoi soldati. Ai tempi della Scala, non comandava certo su Paolo Grassi o su Carlo Maria Badini.

Io almeno la vedo così.
Salutoni,
Mat


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Re: Riccardo Muti

Messaggioda Ninci » dom 07 ott 2012, 20:32

E' molto interessante vedere come di Muti sia impossibile avere un'immagine univoca. Tutti sono concordi nel riconoscergli tratti di autentica grandezza (solo un imbecille può negare che si tratti di un grande direttore), ma circondano questa grandezza di tanti e tali limiti che la grandezza diviene immediatamente piccina piccina. Il bello è che questi limiti, a seconda di chi parla, sono sempre diversi; tant'è che l'immagine del direttore si sfarina in una specie di caleidoscopio. Mi viene in mente una magnifica immagine evocata da Fedele D'Amico in un suo magistrale saggio su Berlioz (un saggio simile nessuno oggi sarebbe in grado di scriverlo, né sul web né sulla carta stampata). I contemporanei di Berlioz lo sentivano estraneo e incomprensibile ai loro modi; ma questa incomprensibilità, cioè la constatazione di un limite, la riempivano di contenuti sempre diversi, perché diverse erano le categorie in base alle quali la giudicavano. Così alcuni potevano dire che Βerlioz mancava di melodia nello stesso modo in cui altri potevano sostenere che era appunto l'invenzione di melodie bellissime ciò che pregiudicava il loro uso in una struttura sinfonica. Così è per Muti. Alcuni dicono che manca di cultura. Altri invece che è proprio quando fa cultura che cade. E così via, di contraddizione in contraddizione. In qualche modo è così' anche per Karajan, nei confronti del quale non mancano mai pesanti riserve. Come se fossero figure (e secondo me lo sono) estremamente difficili da afferrare;e certamente lo era Berlioz. Questo me le rende molto affascinanti.
Infine una piccola notazione. Quando si parla di Muti, appena se ne parla, subito appare il paragone con Abbado, naturalmente a sfavore del Nostro. Il bello è che questo paragone appare nel momento stesso in cui si afferma a chiare lettere di non volerlo istituire. E' un modo di procedere che mi ricorda un saggetto magistrale di Freud sulla negazione. Un contenuto, percepito come scorretto o aggressivo, viene negato proprio perché lo si propone e se ne conosce il carattere scorretto o aggressivo. Quando si dice "non per volerti offendere" è perché si sa bene che si sta per offendere e si vuole farlo. Così è per il paragone con Abbado, condimento imprescindibile tutte le volte che si parla di Muti.
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Re: Riccardo Muti

Messaggioda MatMarazzi » lun 08 ott 2012, 12:10

Ninci ha scritto:E' molto interessante vedere come di Muti sia impossibile avere un'immagine univoca.

Caro Ninci,
a me invece pare che in questo thread siano state dette cose estremamente simili da parte di tutti, in certi casi proprio univoche.
Non capisco da dove tu abbia tratto questa impressione.

Tutti sono concordi nel riconoscergli tratti di autentica grandezza (solo un imbecille può negare che si tratti di un grande direttore), ma circondano questa grandezza di tanti e tali limiti che la grandezza diviene immediatamente piccina piccina. Il bello è che questi limiti, a seconda di chi parla, sono sempre diversi; tant'è che l'immagine del direttore si sfarina in una specie di caleidoscopio.


Ho riletto con attenzione tutto il thread e, contrariamente a te, ne ho tratto un'immagine chiara e univoca, come se tutti noi, con espressioni o parole diverse, vedessimo nel caso Muti gli stessi aspetti, tutt'al più sempre meglio definiti a mano a mano che la discussione procedeva.
Sono quindi curioso di capire dove sarebbe - per te - questa incompatibilità di opinioni e di giudizi che a me è sfuggita.
Salto quindi il dotto (ma inutile in questo caso) riferimento a Berlioz e vengo al sodo:

Così è per Muti. Alcuni dicono che manca di cultura. Altri invece che è proprio quando fa cultura che cade. E così via, di contraddizione in contraddizione.


Be' quindi in pratica... (a parte il generico "così via, di contraddizione in contraddizione" che non vuol dire nulla) tu scopri una sola contraddizione.
Una sola"!
E per giunta sbagliata.
Gli unici che hanno tirato in ballo la cultura generale di Muti siamo io e Vizzardelli.
Io constatavo che la cultura generale non è certo il punto forte del direttore; Vizzardelli invece si riferiva a un atteggiamento che, in realtà, ha ben poco a che fare con la cultura vera, ma proprio di chi in fondo ..."vuole apparire più colto di quello che è".
Ossia l'ammantare di seriosità professorale toni e atteggiamenti, perdendo l'autenticità dell'espressione.
E' un po' il caso che spesso ho osservato fra quegli amici che hanno fatto carriera accademica senza disporre di particolari meriti (ma di vistose parentele); da ragazzi simpatici che erano quando eravamo studenti sono diventati tronfi e seriosi, con voce profonda e cipiglio altero. E questi atteggiamenti li hanno assunti non perché sono diventati"colti", ma proprio perché sanno di non esserlo abbastanza...

In questo senso, io e Vizzardelli - anche su questo punto - siamo sulla stessa lunghezza d'onda.
Oltretutto né io, né lui consideriamo la cultura (o la scarsa cultura) un criterio valido per attaccare un direttore.
Chi l'ha detto che un direttore (che in fondo gestisce degli orchestrali) debba anche essere un pozzo di scienza?
L'importante è che abbia la capacità, la tecnica, la visione, la sensibilità per fare quello che deve fare; per il resto può tranquillamente essere uno che non legge mai, che dedica tutto il suo tempo libero alle macchine da corsa e che stravede per la musica pop. Certo, in questi casi (per nulla infrequenti) si suppone che abbia almeno l'umiltà di capire che, per questo aspetto (che nell'interpretazione musicale ha il suo peso), deve appoggiarsi a qualcuno che possa indirizzare le sue scelte.
Proprio come spesso capita che grandissimi registi si appoggino a un "drammaturgo" per le problematiche più strettamente "culturali" di una regia...
La scarsa cultura diventa un limite solo se uno cerca di nasconderla assumendo, come quei miei ex compagni di liceo, pose tronfie e seriose, voce profonda e cipiglio altero.

Chiarito che il discorso sulla cultura non cela alcuna contraddizione, ti inviterei a spiegarci dove sarebbero le altre.

Infine una piccola notazione. Quando si parla di Muti, appena se ne parla, subito appare il paragone con Abbado, naturalmente a sfavore del Nostro. Il bello è che questo paragone appare nel momento stesso in cui si afferma a chiare lettere di non volerlo istituire. E' un modo di procedere che mi ricorda un saggetto magistrale di Freud sulla negazione.


O mamma mia! Addirittura Freud.
Perché invece non rileggi il post di Triboulet da cui è nata questa discussione?
Il post poneva ESATTAMENTE un confronto fra Muti e Abbado! :)
Capisci? Si parlava di quello precisamente!
Ora, tu puoi anche dire che è un argomento banale (secondo me, come lo ha posto Trib, banale non lo era affatto).
Nondimeno quando una discussione ha per argomento proprio un confronto fra due direttori, stupirsi che nella discussione vengano fuori entrambi ...a me sembra proprio un bel processo di negazione come lo descrive Freud! :)

Saluti
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Re: Riccardo Muti

Messaggioda vivelaboheme » lun 08 ott 2012, 18:27

Quoto Mat, e nulla ho da aggiungere.


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