Luca ha scritto:Caro Triboulet,
una puntualizzazione cronologica: Cavalleria con Bergonzi e la Cossotto non la metterei nel Karajan seconda maniera
Giustissima la puntualizzazione di Luca.
Aggiungo che - ammesso che sia giusto isolare le opere italiane del Karajan "seconda fase" - ti sei dimenticato di Otello.
Tuttavia l'argomento è affascinante.
Come dice Luca, occorre anche ricordarsi che molte delle scelte più audaci di Karajan si scontrarono con le perplessità degli stessi artisti (la Freni che rifiutò Turandot, Norma e Leonora) e che molte ipotesi non le conosciamo.
Alla fine è vero che nei cast finali dobbiamo considerare anche i ripieghi dovuti ai rifiuti e le pressioni delle case discografiche.
FAtte tutte queste tare, occorre riconoscere, hai ragione, che i cast di secondo Karajan, almeno sul fronte Verdi-Puccini, ci paiono non poi troppo rivoluzionari e spesso anche vistosamente sbagliati. Ma questo dipende, secondo me, anche da due fattori.
Il primo dipende direttamente da Karajan, che - su questo sono d'accordo con te - pensava che un certo tipo di suono e di canto potesse da solo rappresentare una rivoluzione.
Non capì (ma all'epoca pochi lo capivano! Nemmeno Celletti lo capì mai) che il suono è solo uno strumento, non è nè teatro, nè musica.
Per quelli ci vuole la personalità.
E così Karajan pensava che il fatto stesso di chiamare una Freni in Aida e una Ricciarelli in Tosca fosse già una rivoluzione, mentre si trattava solo di un abbozzo, perché l'una e l'altra mancavano dell'adeguata personalità per i rispettivi ruoli, specie nella nuova ottica che Karajan sognava di imporre.
La Callas e la Schwarzkopf non erano solo "suoni", per questo con loro la rivoluzione riuscì.
Già con la Price (e con la giovane Freni in Traviata e Mimì o con Bergonzi) il risultato di karajan fu assai meno probante.
Ma con gli anni della "crisi" la rivoluzione fallì. Perché i cantanti erano ormai scelti esclusivamente sull'originalità del suono rispetto alla tradizione.
La crisi internazionale dell'Opera negli anni 65-85 è il secondo fattore che purtroppo occorre tenere presente nel valutare i cast del secondo Karajan.
Questa crisi si respira perfettamente
anche nelle incisioni di Karajan, ma non solo.
L'onnipresenza discografica e teatrale di gente come Domingo, Carreras, Pavarotti o come Ricciarelli, Caballé, Freni o come Ghiaurov, Raimondi o ancora Bruson, Cappuccilli non può certo essere ascritta solo a Karajan.
A cercarli col lumicino, i grandi artisti c'erano anche i quegli anni - seppure molto meno che in altre fasi - ma, quasi sempre, erano degli outsider specie rispetto al grande repertorio verdiano e pucciniano: incidevano raramente, e ancor più raramente nel grande repertorio; inoltre restavano ai margini delle programmazioni teatrali più fastose, quelle di New York, Londra, Vienna, Milano che venivano sbandierate sulle riviste internazionali.
La crisi non si vede solo dalla carenza di grandi interpreti, ma anche dal fatto che quei pochi che ci sono passano in secondo piano: ad esempio un Boccanegra davvero straordinario come Wachter rimase confinato in Austria, mentre nel resto del mondo e in sala di incisione si continuava a dar spazio agli infinitamente più modesti Cappuccilli e Bruson.
Sempre tra le voci gravi, per anni il più incisivo e rivoluzionario bass-baritono verdiano della sua generazione, José Van Dam, se ne restò a lungo confinato a Bruxelles, dove inanellava trionfi in Boccanegra, Filippo II, Falstaff.
Solo nella seconda metà degli anni '80, superata la crisi, ci si accorse del fatto che lo si poteva chiamare in Verdi anche nei teatri importanti e in studio: peccato però che il momento d'oro del suo Verdi fosse già trascorso.
Quale casa discografica o teatro internazionale (a parte la Staatsoper di Monaco) avrebbe chiamato allora una Julia Varady in Nabucco? La sua Abigaille, sicuramente la migliore da svariati decenni in qua, doveva cedere spazio alle ben più dozzinali (almeno in questo ruolo) Dimitrova e Zampieri!
Ci vollero gli anni '90, superata la crisi, perché la chiamassero a Parigi e pubblicassero il live del suo Nabucco...
Chi avrebbe chiamato una Eda Pierre, che so, nei Due Foscari? O una Margareth Price in Aroldo? Nessuno: spazio alle Ricciarelli e Caballé!
O un Ochman in Masnadieri? Un Wimbergh in Ernani? Nessuno: spazio ai Bonisolli e ai Dominghi.
O un Allen in Carlo di VArgas? un Hagegard in Conte di Luna! Un Hinninen in Macbeth? Guai! Spazio ai Cappuccilli e ai Bruson.
Quello che voglio dire è che negli anni della crisi non c'era spazio per le sfide (a differenza di ciò che avveniva nel quindicennio felice posteriore alla seconda guerra o come avviene oggi). Fra il 65 e l'85 si prendevano solo le strade più semplici, prevedibili, rassicuranti.
Se si interpellavano ossessivamente i Dominghi e le Caballé, i Bruson e le Freni non era solo per i contratti firmati, ma anche perchè il pubblico era già abituato a loro: non avrebbe dovuto fare lo sforzo di porsi di fronte a suoni nuovi e inattesi.
Ed è questo il segno più grave e riconoscibile della Crisi.
Fatte tutte queste premesse, si può sottolineare che:
- a parte tutto, la scelta della Freni in tanti ruoli che la tradizione affidava a volumi vocali più importanti fu un atto sintomatico della volontà di Karajan non tanto di ricorrere ai bei suoni, quanto di "umanizzare" certi personaggi e insistere - come dicevo altrove - sui primi piani, abbattere la retorica e il magniloquio della tradizione.
Già Traviata e Butterfly erano operazioni audaci; ma semplicemente rivoluzionario fu interpellarla in Desdemona, Elisabetta, Aida.
Noi oggi consideriamo normale sentire la Freni in questi personaggi, dato che poi - specie i primi due - sono diventati i suoi biglietti da visita; ma all'epoca la cosa creò vasto sconcerto: era pur sempre una Susanna, una Nannetta, una Despina che Karajan promuoveva ai grandi personaggi Stolz; era un passo inaudito.
- sullo stesso tracciato va intesa l'audacia di scritturare una Ricciarelli per Tosca e Turandot. Anche in questo caso i risultati sono stati pessimi (perché già del 1980 la Ricciarelli si era miseramente frantumata la voce e la personalità è sempre stata insignificante e modestissima) e tuttavia l'operazione era ancora una volta arrischiata, sintomatica di un progetto che non seguiva i sentieri battuti e cercava nuove verità.
- Idem per l'idea di chiamare in Amneris, Eboli, Carmen (per non parlare di Erodiade e Donna Elvira) un giovane mezzosoprano greco - per altro dalla voce chiara, sopranile, non grande e forgiata nel repertorio rossiniano - come la Baltsa.
Ancora una volta, non dobbiamo fermarci ai risultati - non tutte le ciambelle Baltsa sono riuscite col buco; piuttosto dovremmo interrogarci ancora sulle ragioni di una scelta tanto audace e coraggiosa e infatti discussa e contrastata.
Non mi verrai a dire, spero, che Karajan diede tanta fiducia alla Baltsa, e in ruoli solitamente affidati alle trombe marine come la Cossotto e la Obrastzova, perché era ossessionato dal "bel suono"? La Baltsa tutto era fuorché una cantante da "bei suoni".
- sulla stessa linea di liricizzazione estrema, di umanizzazione scopertamente anti-retorica, vanno intese le collaborazioni con la Janowitz e soprattutto con la Hendrics. Il canto di quest'ultima era, lo sappiamo tutti, fragilissimo, vetroso e monocromo, ma talmente spoglio e sussurrante da incarnare perfettamente l'ottica con cui Karajan intendeva ripensare il repertorio popolare.
Ma certamente anche nel caso della Hendrics in Nannetta, Micaela e Liù, Karajan non si preoccupò certamente del "bel suono"!
Anzi, se dovessimo valutare la Hendrics solo sulla bellezza del suono, potremmo considerarla la peggiore Nannetta, Micaela e Liù della discografia.
Le ragioni della scelta di Karajan (quali che siano stati gli effettivi risultati) si spiegano ancora una volta con la volontà di togliere ai personaggi del grande repertorio la maschera di pienezza e piacevolezza sonora (nonché austerità psicologica) imposte loro dalla tradizione: insomma, farli scendere dal piedistallo.
Anche chiamare Bergonzi nei grandi ruoli veristi era una scelta "sonora" (perché violava la tradizione del declamato iperdrammatico) ma non va confusa con l'ossessione del "bel suono" (rispetto al quale Bergonzi non era affatto un'autorità).
E sono forse esponenti di "bel suono" la Kabaywanska (Pagliacci, Trovatore, Falstaff) o la Barstow (Tosca, Ballo in Maschera)?
E Taddei? Era il bel suono ad aver convinto karajan ad affidargli Scarpia e Falstaff?
Non parliamo di Vickers, ossessivamente scritturato da Karajan e non solo in Florestan, Siegmund e Tristan, ma anche in Otello.
Era forse il tenore canadese un rappresentante del suono bello a tutti costi? Era per edonismo che Karajan ricorreva a lui?
Anche io, Triboulet, sono d'accordo che la maggior parte delle scelte di casting di Karajan nel repertorio di tradizione siano state alla fine inefficaci o discutibili, ma non superficiali e tanto meno edonistiche.
Il loro limite era dovuto all'erronea convinzione che il solo fatto di disporre di una voce più lirica e sfumata fosse sufficiente a suggerire nuovi spaccati psicologici di un personaggio.
I nuovi spaccati non si aprono con i suoni, ma con la personalità che li governa.
In questo Karajan sbagliò: è come un regista che si fidi della foto di un attore per scritturarlo, come se una "faccia così e così" sia in grado di assicurare l'efficacia di un'interpretazione.
E tuttavia se c'è una cosa che Karajan non fece era di inseguire l'edonismo, le belle voci a tutti i costi. E in anni in cui si era ossessionati dai Pavarotti, dalle Caballé e dalle Cossotto, fare scelte di casting che prescindessero dalla bellezza timbrica e dalle abitudini del pubblico, per inseguire un progetto di umanizzazione del repertorio, era già un'operazione coraggiosissima, anche solo potenzialmente vincente e sulla quale non è possibile alzare le spalle.
Possiamo anche non amare la Desdemona e l'Elisabetta della Freni con Karajan, ma probabilmente senza di loro saremmo ancora fermi alle Elisabette e Desdemone morigerate, fastose e mature, tutte legatoni e pose alla Yvonne Samoson, in stile Antonietta Stella.
Attendo le tue repliche.
Salutoni,
mat